cinemavistodame.com di Roberto Bernabò

La doppia ora – di Giuseppe Capotondi

analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo

Ibridazioni tra generi noir e thriller e l’ambiguità femminea

Locandina del film "La doppia ora"

La doppia ora

titolo originale: La doppia ora
nazione: Italia
anno: 2009
regia: Giuseppe Capotondi
genere: Noir/Drammatico/Thriller
durata: 95 min.
distribuzione: Medusa Film
cast: Ksenia Rappoport (Sonia) • Filippo Timi (Guido) • G. Colangeli (prete anziano)
sceneggiatura: L. Rampoldi • A. Fabbri • S. Sardo
musiche: P. Catalano
fotografia: T. Radcliffe
montaggio: G. Notari
voto-4-stars

Trama: Sonia viene da Lubiana e fa la cameriera. Guido è un ex poliziotto e lavora come custode in una villa. Si incontrano in uno speed date. Lui è un cliente fisso. Per lei è la prima volta, e si vede. Poche parole, un’istintiva attrazione. In pochi giorni imparano a conoscersi, a svelare le proprie ferite. Sono sul punto di innamorarsi, quando Guido muore. Improvvisamente, durante una rapina nella villa che dovrebbe custodire. Sonia si ritrova da sola a elaborare un lutto di cui non riesce a trovare il senso. E di cui alcuni addirittura la ritengono responsabile. Mentre il passato di Sonia ritorna, con tutti i suoi nodi non risolti, la realtà che la circonda comincia a collassare, fino a crollarle addosso. Chi è veramente Sonia? E soprattutto, è davvero Guido quello che lei continua a vedere?

Introduzione

Inizio subito con il dire una cosa.

E’ raro vedere un debutto di un regista italiano ultimamente.

Ed è rarissimo che questa cosa coincida con una pellicola di livello.

Giuseppe Capotondi e Ksenia Rappoport

Non è questo il caso di Giuseppe Capotondi, né quello di questo film per tutta una serie di ragioni.

Ne citerò tre che tenterò di argomentare e sviluppare in questa analisi.

  1. La prima: l’impianto narrativo:
    • ibridazioni tra generi noir e thriller
    • ambiguità femminea dell’esistente Sonia e collocazione temporale della “crisi” del personaggio
    • ambiguità vs. doppiezza
  2. La seconda: l’idea filmica di riprendere qualcosa che non è la realtà
  3. La terza: gli aspetti inerenti la celata misoginia, legata ancora all’ambiguità femminea dell’esistente Sonia, del regista.

1. L’impianto narrativo

Chi mi legge lo sa. Amo molto la risoluzione delle problematiche che un buon impianto narrativo comporta, e, devo riconoscere, che se c’è davvero un aspetto di pregio, di questo lungometraggio, e, della sua indiscutibile atmosfera aurorale, che, spesso, accompagna le opere prime, è proprio quello inerente la sceneggiatura. Non a caso la stessa ha ricevuto una menzione speciale al Premio Solinas.

Ma perchè è interessante l’impianto narrativo de “La doppia ora“?

Per due motivi.

L’ibridazione, di notevole spessore, tra il genere thriller ed il genere noir.

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L’ambiguità, specificamente femminea, dell’esistente protagonista Sonia, interpretata, direi magnificamente, da Ksenia Rappoport, che si è conquistata, per questa parte, la Coppa Volpi alla recente Mostra di Venezia ’67.

§§§

1.1 Ibridazioni tra genere noir e genere thriller

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Il genere noir si differenzia dal giallo perché lo scopo del film non è, solamente, raccontare e risolvere un crimine. A fine storia lo spettatore deve riflettere, sulla base di ciò che ha visto, sulla realtà che gli sta intorno, deve analizzare il mondo che lo circonda in base alle informazioni che riesce a raccogliere dalle immagini, in modo tale che quasi la soluzione del crimine passi in secondo piano. Il noir tende ad avere più un antieroe come protagonista, invece dell’eroe del giallo. Ed è anche proprio la differenza tra i finali, che rende i due generi diversi tra loro, anche se, ovviamente, facilmente considerabili, comunque, contigui. Il finale giallo è, infatti in genere, un finale consolatorio, e frequentemente la soluzione del giallo riporta allo status quo. Il finale di un noir è, invece, sempre, poco consolatorio, a volte capita che addirittura non esista, o che non ci sia soluzione al l’intreccio della storia. Il punto di vista della narrazione, è l’altra differenza importante: il giallo è la storia raccontata dai buoni. Il noir è la storia raccontata dal punto di vista criminale … il tutto con le debite, ovvie, e dovute eccezioni.

La caratteristica comune delle opere appartenenti al genere thriller, e che lo distingue dal poliziesco, è quella di cercare di provocare nel lettore o nello spettatore una particolare tensione, la suspense, che può sfociare, a volte, anche, nella paura. Spesso lo spettatore assiste direttamente alla preparazione ed all’esecuzione di un crimine, subendo, pertanto, un forte coinvolgimento emotivo. Per raggiungere il climax gli autori utilizzano, più volte, tutti gli accorgimenti tipici di questo genere: accavallamento di più intrecci, personaggi che operano nell’ombra, sequenze al rallenty ed i cliffhanger.

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I thriller si fondono, comunque, spesso con il giallo in senso lato, ma sostanziali sono le differenze nella trama. In un thriller, il protagonista deve spesso fermare i piani criminali dell’antagonista. Il pericolo e gli scontri, più o meno violenti, sono spesso elementi fondamentali della trama. Mentre nel giallo classico il climax viene, di solito, raggiunto quando il mistero viene risolto, nei thriller viene raggiunto quando il protagonista, alla fine, riesce a battere l’antagonista, salvando la vita a sé stesso, e, molto frequentemente, anche ad altri personaggi.

In effetti, chi assiste ad una proiezione de “La doppia ora“, assiste, di fatto, all’intreccio direi molto interessante, e spesso, peraltro, anche ribaltato rispetto agli archetipi fondanti, di queste due ontologie, che raramente, come in questa opera, vengono costantemente a mescolarsi, tanto che lo spettatore non riesce, per un lungo tratto del film, a comprendere, realmente, a quale di questi due generi sia, quantomeno prevalentemente, attribuibile il lungometraggio.

§§§

1.2 Ambiguità femminea dell’esistente Sonia e la collocazione temporale della “crisi” del personaggio

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Questo è, direi, uno dei temi centrali del film, che riprenderò, anche, nell’ultimo paragrafo di questa analisi.

Calato nell’impianto narrativo, questo aspetto, è notevolmente ed abilmente, direi, dissimulato, probabilmente proprio perchè è la stessa Sonianella lunga “crisi” del suo personaggio, collocata, direi in maniera abbastanza ardua ed innovativa, all’inizio del film, con una soluzione che mi ha riportato alla mente, proprio per questa peculiarità narrativa, la costruzione dell’intreccio del film “Lantana” di Ray Lawrence (Australia – 2001) – a non averlo, persino lei, chiaro, a livello inconscio.

Nel contesto dello specifico aspetto inerente l’impianto del racconto, l’ambiguità femminea di Sonia, viene, più che altro, utilizzata per confondere lo spettatore, con espedienti che rendono molto arduo il processo d’infralettura narrativa.

Quella che sembra appunto “la crisi della protagonista“, ha, viceversa, delle spiegazioni assolutamente plausibili e corrette, che si esplicitano nella narrazione curiosamente assolutamente lineare dello sviluppo dell’intreccio.

E direi che questo specifico aspetto (rendere ardua l’infralettura), in una trama lineare, è quello che maggiormente rende pregevole il lavoro della sceneggiatura, che ha, secondo noi, giustamente ed ampiamente, meritato la menzione al Premio Solinas.

1.3 Ambiguità vs. doppiezza

Non è un caso, peraltro, e chiudo, che l’ambiguità si accompagni con il concetto di doppiezza, rievocata nel titolo, e nell’impossibilità (lieve anticipazione di destino degli esistenti), che, nonostante quanto Guido racconti, circa il possibile avverarsi dei desideri espressi nello scoccare della cosiddetta “doppia ora” (es. le 05:05),  ciò di fatto, poi, non avvenga nella realtà.

Piccolo bit anticipatorio, che è, infondo, lo stesso Guido a regalarci, a guardare bene, con la sua ammissione che, secondo lui, questo mito, è solo una credenza priva di fondamento, alla quale lui, pertanto, non crede, convinzione, che, invece, (ennesima allitterazione sulla doppiezza), sarà egli stesso, di fatto, a smentire, con la sua ostinata, fino a rasentare l’ingenuità, fiducia, nella buona fede di Sonia che, a sua volta, in quanto a doppiezza, è, come dire, una sorta di archetipo junghiano.

§§§

2. Idea filmica di riprendere la non realtà

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Un altro aspetto notevole, forse anche sotto lo specifico filmico, e non solo narrativo, è l’idea del regista (informazione molto spoiler attenzione), di riprendere – nel primo tempo del racconto – una sezione della vita della protagonista (che crea il presupposto per il primo grande colpo di scena e di snodo della narrazione degli eventi), che è si della vita della protagonista, ma che, rispetto a quello che lo spettatore è portato (genialmente peraltro) a credere, non corrisponde con la realtà con cui il film ha inizio.

Molto si è detto, e giustamente, parlando di “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino, di quanto il cinema possa filmare persino un epilogo storico inesistente ed immaginario.

Molto si può dire, pertanto, della sua capacità di riprendere, in questo film, una condizione puramente mentale, che nessun umano se non, forse, attraverso una sua traumatica esperienza, riuscirà a fare mai entrare nel suo campo visivo (reale). Non intendo anticipare di più, per non sciupare la grande emozione, che, ad un certo punto lo svelamento di questa parte del racconto comporterà alla narrazione degli eventi, posso solo dire che mi ha particolarmente colpito.

E’ come se il racconto si traslasse su un piano sfalsato, e, per certi versi, parallelo alla vita degli esistenti, e conducesse, volutamente, lo spettatore a congetture, convinzioni, e conclusioni del tutto errate, rispetto a quelle che, invece, nello sviluppo dell’intreccio, si paleseranno come vere (nel senso di reali).

Qui, lo dobbiamo ammettere, il film raggiunge una lentezza forse appena eccessiva, ma nel contempo innesca una lunga serie di colpi di scena, davvero molto raffinati, che costringono lo spettatore a rimettere in discussione un po’ anche molti aspetti valoriali, di un po’ tutti gli esistenti.

Notevole non c’è che dire.

§§§

3. Misoginia celata del regista

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Quando parlo di misoginia del regista, sia chiaro, non dico che, necessariamente, Giuseppe Capotondi sia un misogino.

Per misoginia, infatti, normalmente s’intende (dal greco μισεω miseo, io odio e γυνη gyne, donna), un’esagerata avversione nei confronti delle donne.

Generalmente da parte di uomini, più raramente da parte di donne.

Spesso è usato come sinonimo o rafforzativo di maschilismo. I due concetti possono essere separati considerando la misoginia come un atteggiamento individuale e il maschilismo (da quale la misoginia può semmai derivare), come un sistema di valori che considera le donne inferiori all’uomo, e che perciò, secondo le teorie del femminismo, va riconosciuto come una vera e propria teoria politica, alla pari del razzismo o dell’antisemitismo, che mira alla sottomissione delle donne.

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Qui, a guardare meglio, stiamo probabilmente parlando invece di una misoginia legata al concetto di ambiguità femminea.

Quindi non un’avversione tout court, quanto, piuttosto, una visione molto precisa, anche nell’iconografia pittorica del ‘500, in cui la donna, e la sua potente attrazione virginale, portano l’uomo all’errore, e, spesso alla sofferenza.

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Potremmo dire che lo sviluppo valoriale dell’impianto narrativo, ci porta a contatto con esistenti femminili che non rappresentano, come peraltro abbiamo visto essere coerente con lo specifico filmico del genere noir, personaggi positivi.

La donna o è ambigua (Sonia), o, peggio, è vacua (Margherita).

Sonia, a guardarla bene, è una persona che ha nella sua natura – ed è questa, forse, potremmo dire, l’unica attenuante ai suoi comportamenti, essendo la stessa, probabilmente, assai più forte della sua stessa, inconscia, volontà – una costante capacità di provocare il male delle persona che, invece, dovrebbe amare.

Il padre prima.

[Altro rapporto archetipale ben accennato, ma non altrettanto bene sviluppato, se non in una prospettiva oserei dire didascalica, e, forse, eccessivamente di maniera].

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Guido poi.

L’uomo che l’ama, la sceglie (lui si), e che la salva, persino.

La donna, in pratica, che alla fine si rivela in una prospettiva assai contigua al volto che del femmineo  che il geniale regista danese Lars von Trier, da anni cerca di trasferirci, con ben diversi, (e che diversità), toni formali.

E cioè:

la donna come causa primaria della sofferenza dell’uomo.

Ma volutamente mi fermo qui, perchè questo aspetto, che intendiamoci è sicuramente presente, non è probabilmente la chiave di lettura più appropriata per descrivere l’opera, che la sfrutta e l’adopera per costruire, assai sapientemente, peraltro, il sempre difficile rapporto tra suspance e sorpresa.

Che rimane, e lo dobbiamo proprio ammettere, una delle cose probabilmente più pregevoli del film, unitamente alle capacità attoriali non solo di Ksenia Rappoport (Sonia) e di Filippo Timi (Guido), ma un po’ di tutti quanti gli altri attori del film, e questo, sicuramente, per merito della eccellente capacità di Capotondi di dirigerli sul set.

Anche se la storia viene narrata, direi quasi esclusivamente, per il tramite dei due soli esistenti protagonisti, elemento che rende, pertanto, ancora più difficoltosa, la restituzione, allo spettatore, di questo specifico aspetto d’impianto narrativo.

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Degna di nota anche la direzione della fotografia affidata a Ted Radcliffe, sia per le scene sgranate e volutamente sovraesposte delle sequenze iniziali, sia per il risultato complessivo dell’opera, che tocca aspetti molto specifici dei generi, e soprattutto per i chiaro scuri, quasi caravaggeschi, di alcune inquadrature, che suggellano le luci e le ombre di questa, veramente ben narrata, storia a sfondo noir, che consiglio a tutti di vedere.

§§§

4. Curiosità cinephìle – già richiesto un remake made in USA del film

Chiudo con una curiosità cinephìle. Aumenta il numero di compratori statunitensi interessati a realizzare un remake a stelle e strisce di questo film … notevole risultato rebus sic stantibus … non vi pare?

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Francesco
14 anni fa

una bella recensione (la definizione è riduttiva, analisi approfondita di sicuro) per un bel film.
questo è uno di quei film che col tempo verranno apprezzati, “donnie darko” docet.
purtroppo siamo pigri e ingenerosi, a volte, col cinema italiano sopratutto, e non sappiamo riconoscere le cose che valgono.
questo è film serio, di sostanza, a cui volere bene.

Roberto Bernabò
14 anni fa
Reply to  Francesco

@Francesco> … sono assolutamente d’accordo con te ;-)

Ho letto anche la tua recensione collaborativa da te ;)

A presto.

Rob.

Roberto Bernabò
14 anni fa

Roberto Bernabò
14 anni fa

Roberto Bernabò
14 anni fa

Roberto Bernabò
14 anni fa

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