U.S.A. | 2011
analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo
Amore e morte in un incontro karmico tra adolescenti | a cura di Roberto Bernabò
L’amore che resta
titolo originale: Restless
nazione: U.S.A.
anno: 2011
regia: Gus Van Sant
genere: Drammatico
durata: 91 min.
distribuzione: Warner Bros
cast: M. Wasikowska (Annabel) • H. Hopper (Enoch Brae) • J. Adams (Mabel Tell) • S. Fisk (Elizabeth Cotton) • L. Strus (Rachel) • C. Han • R. Kase (Hiroshi) • K. Leatherberry (Elliot)
sceneggiatura J. Lew
musiche: D. Elfman
fotografia: H. Savides
montaggio: E. Graham
Sinossi: Annabel Cotton è una bella e dolce malata terminale di cancro che ama intensamente la vita e il mondo della natura. Enoch Brae è un ragazzo che si è isolato in se stesso da quando ha perso i genitori in un incidente. Quando i due si incontrano ad una cerimonia funebre, scoprono di condividere molto nella loro personale esperienza del mondo: Enoch che è in contatto con il suo miglior amico immaginario, Hiroshi, fantasma di un pilota kamikaze giapponese; Annabel con la sua sconfinata ammirazione per Charles Darwin e l’interesse per come vivono le altre creature. Quando Enoch scopre che ad Annabel resta poco da vivere, si offre di aiutarla ad affrontare gli ultimi giorni con irriverente abbandono, sfidando il destino, la tradizione e la morte stessa.
“Io canto ogni mattina da quando ti conosco”
1. Introduzione | Gus Van Sant | il suo cinema | questo film
Non è in effetti così raro, che io mi emozioni fino al punto di commuovermi, e piangere, assistendo ad una proiezione di un film.
E’ raro, però, anzi rarissimo, che riesca a farlo con l’intensità che la pellicola “L’amore che resta“, di Gus Van Sant – un regista che ho amato da subito, sin dai tempi della sua opera “Will Hunting | Genio Ribelle” (1997), che, credo, dette la notorietà a Matt Demon, se non, addirittura, da quelli di una rara visione italiana, non mi ricordo più neanche in quale cineclub, del film “Cowgirl: il nuovo sesso” (1995), opera irrealizzabile, perché tratta dal romanzo di uno scrittore come Tom Robbins, capace, in ogni più piccolo inciso, di evocare paesaggi grottescamente e surrealisticamente venati da una spessa patina di follia lisergica – ha saputo provocare in me per quasi tutto il tempo della proiezione. Dovrei indagare meglio, questo rapporto tra la mia commozione e certi temi, ma, non temete, non lo farò in questo post. ;-)
Follia lisergica che rappresenta, come dire, lo specifico filmico di questo regista, o meglio dei suoi giovani esistenti.
Visceralmente attratto dalla condradiana linea d’ombra, che separa l’età dell’adolescenza, sempre centrale nelle sue opere (se non consideriamo Milk), da quella adulta.
Va aggiunto che, per chi non conoscesse il suo cinema, Gus Van Sant è, da sempre, un regista anomalo: considerato, all’inizio degli anni novanta, uno degli alfieri di una ritrovata libertà d’espressione dei cineasti americani, affrancati dalle rigide regole dell’intrattenimento commerciale dettato, dalla macchina hollywoodiana. Hai detto cotica.
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2. Circa gli esistenti | gli adolescenti di Gus Van Sant
Sono irrequieti e tormentati i personaggi di Gus Van Sant.
Lo sono sempre stati, nella loro dolcezza disarmante e lieve.
Hanno ferite nascoste e taciute, ma le loro espressioni tradiscono sempre una sorta di desiderio di fuga.
Enoch Brae (interpretato impeccabilmente, direi, dal giovanissimo Henry Hopper, figlio esordiente di Dennis, al quale il film è dedicato), conosce Annabel Cotton (la sempre più brava Mia Wasikowska, in sala anche con “Jane Eyre“), ad un funerale.
Non ci sono motivi a giustificare lì la loro presenza, eppure, i due giovani “abitano” quel luogo, come se ci fossero sempre stati, in silenzio, ad ascoltare parole e racconti di chi si stringe attorno alla bara di uno sconosciuto.
Il primo ha perso i genitori in un incidente stradale, la seconda ha un cancro al cervello, che non le concederà più di tre mesi di vita, e avrebbe fatto la naturalista, se avesse potuto inventarsi il futuro.
Mentre lei disegna uccelli, ed impara a memoria i loro nomi, lui dialoga con un amico immaginario (?), il fantasma di un soldato giapponese morto kamikaze, durante la seconda Guerra Mondiale. Questo esistente è molto importante per cogliere:
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da un lato, l’ortodossia che Gus Van Sant, mantiene rispetto alla pièce teatrale di Jason Lew, che ha firmato anche la sceneggiatura del film, di cui il film è un adattamento;
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dall’altro la capacità di questo regista, grazie a questo escamotage, che non saprei se definire più onirico o addirittura più esoterico, di traslare, gradualmente, il racconto dell’evolversi della vita dei tre ragazzi, verso un piano allegorico ed universale.
Tutti e tre questi esistenti, peraltro, indagano la vita passando attraverso la morte, cercando frammenti di gioia dispersi nelle tracce intorno a loro.
E ci riescono, insieme, ogni giorno, usando la rabbia, e lo spaesamento, e la felicità di essere vivi, e la disperazione di non esserlo più, con cui vedono il mondo, traducendolo in un conto alla rovescia che li sorprende impreparati alla morte, ma fortemente affacciati alla vita. Tutti indistintamente, persino il fantasma kamikaze.
In “L’amore che resta” Gus Van Sant, che alla scorsa Mostra Internazionale del Festival di Cannes, ha inaugurato la sezione “Un Certain Regard“, riesce a dominare una materia aerea, descrivendo i suoi personaggi come in un disegno a matita, sottile e pieno di sfumature, ma intenso, allo stesso tempo, di quella densità che Enoch ha promesso ad Annabel, per i suoi ultimi giorni.
Certo, ci sono esistenti secondari importanti: come la zia di Enoch Brae, che lotta per aiutare il fratello, o la sorella di Annabel Cotton, che comprende troppo tardi di avere troppo poco tempo per tentare di conoscere la sorella, la loro madre alcolista, ma sono volutamente lasciati in sottofondo, per poter narrare cosa significhi, per due adolescenti, affrontare due eventi, che, ciascuno da solo, potrebbe rappresentare, la loro occasione di rivoluzione personale:
- l’amore,
- la morte.
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3. Circa i piani dello sviluppo del conflitto
Sotto il profilo squisitamente di screenplay, mi ha molto colpito, a guardare bene, un tema a me caro.
E cioè come gli sceneggiatori, ed il regista, abbiano affrontato il tema dello sviluppo del conflitto.
Il primo piano di questo specifico aspetto dell’intreccio narrativo, riguarda proprio quello tra vita e morte.
Un conflitto, certo, ineludibile, ma che si presenta a questi ragazzi davvero troppo presto.
Conseguente a questo primo conflitto, soprattutto nell’esistente Enoch Brae, assistiamo anche ad un secondo piano di sviluppo, direi inter-personale, un po’ con tutti:
- la zia,
- il medico che cura Annabel,
- la stessa Annabel,
- il fantasma Hiroshi.
Quasi come se, nell’evoluzione degli adolescenti scelti da questo regista, una fase di ribellione sia, come dire, necessaria, imprescindibile, e parte integrante del processo di maturazione, e risoluzione, dei suoi esistenti.
In verità, la complessità de personaggio di Enoch, tocca anche il conflitto infra-personale, quello, cioè, tutto agito dentro di lui.
Tra il sé stesso sofferente e pessimista, ed il sé stesso che desidera, invece, vivere, amare, emanciparsi dalle sue fobie.
E’ forse quello tratteggiato meglio, e che ci svela, peraltro, tutte la notevoli capacità attoriali di Henry Hopper (Enoch Brae).
Manca del tutto – ed è questa la cosa stupefacente di questo personaggio, e del plot, devo proprio ammetterlo – un conflitto in Annabel Cotton, un esistente etereo.
Positivo, sempre ispirato dalla vita, amante di tutti gli esseri viventi, non solo dell’umanità, artista disegnatrice, che sa guardare alla morte come ad una cosa che accade in tutte le vite, senza temerla, ma, anzi, affrontandola con struggente leggerezza, e sempre piena di compassione, lei, per tutti quelli che gli sono intorno, ed Enoch in particolare.
Bisogna proprio riconoscere che Mia Wasikowska, la giovanissima attrice che interpreta Annabel, sa conferire a questo incredibile esistente, una tale forza espressiva, che, sono certo, presto sentiremo parlare del talento di questa giovane interprete, per premi molto importanti.
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4. Circa il linguaggio audiovisivo
Le scelte registiche di Gus Van Sant sono sapienti.
Senza mai eccedere, nelle sue “mise en scène”, sa come trasformare la drammaturgia degli eventi in immagini poetiche, il più delle volte, ma anche improvvisamente cupe, e leggere, e grevi, e disperate, ed, infine, catartiche.
Tutto questo Gus lo fa con leggerezza, e con una tale capacità espressiva, che, non so come dire, certe sequenze mi hanno letteralmente lasciato senza fiato.
Il regista stesso ha avuto modo di dichiarare:
“I miei problematici personaggi hanno tutti delle affinità. Forse questo film ha qualcosa nelle atmosfere rarefatte, che mi ricorda “Will Hunting”. Con quel film affrontai, per la prima volta, il mainstream, ed era la prima volta che avevo a che fare con uno script così super positivo. Mi piace mettermi alla prova, esserci riusciti è stata una vittoria”.
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5. Circa gli eventi | amore e morte tra due adolescenti
Tra tutti i posti dove avete, anche voi lettori di questo blog, tentato di conoscere delle ragazze, o anche il contrario, scommetto che l’ultimo che vi sarebbe saltato in mente è quello di andare in giro per funerali.
Traggo da “Il buddismo di Nichiren Daishonin“.
“Ho studiato gli insegnamenti del Budda fin da bambino, e già allora mi ritrovai a pensare:”
“La vita è un essere umano fugace. L’uomo esala l’ultimo respiro senza la speranza di tirarne un altro. Nemmeno la rugiada asciugata dal vento è tanto effimera. Nessuno, saggio o stupido, giovane o vecchio, può sapere cosa succederà il momento dopo quello presente: così vanno le cose nel mondo. Per questo dovrei innanzitutto comprendere la morte, poi tutto il resto.
Gli eventi di questo film hanno molto a che fare con questa riflessione.
Ma non perché il film possa essere ricondotto alle teorie del buddismo di Nichiren Daishonin (semmai il contrario).
Ma perché è vero che per tutto il film, gli eventi ruotano intorno alla morte di Annabel Cotton, che proprio quando accerta, senza possibilità di appello, quanto poco da vivere le rimane, s’innamora con amore puro, e poetico, e struggente, e fuori dagli schemi, e forte come solo i primi amori sanno essere, di Enoch Brae un ragazzo coetaneo, anche lui “morto durante un coma, clinicamente, per alcuni minuti”.
Un incontro che non esagererei nel definire karmico, nella piena accezione del termine, a giudicare dai notevoli e benefici effetti che lo stesso procura, non solo ad Annabel Cotton, ma direi, anche, e, soprattutto, nella vita di Enoch Brae.
“Perché gli uccelli fluviali cantano al mattino?” – chiede Annabel ad Enoch – che le risponde: “perché sono felici“.
E lei, di rimando: “Da quando ti conosco, io canto ogni mattino“.
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6. Conclusioni
La possibilità di cercare di cogliere il significato della morte, e della vita, in due adolescenti, credo sia tutta contenuta nella sequenza finale del funerale di Annabel, quando, finalmente, Enoch sale a parlare ad un funerale di una persona che conosce, quello della sua ragazza, con la quale ha scoperto le meraviglie dell’amore, e del sesso, frutto, entrambe, di un incantevole e breve incontro karmico.
Le parole di questo ultimo sermone, sono solo i suoi sorrisi, che si perdono nei ricordi di tre mesi vissuti come se fossero stati tre secoli, o tre anni, come la stessa Annabel aveva teorizzato in vita.
Nello sguardo di Annabel non vi ho letto mai paura, o angoscia. Come non la si legge nel momento in cui Enoch pronuncia il suo discorso. Come se davvero, la tanta temuta morte dei genitori di Enoch avvenuta, in un quel maledetto incidente automobilistico, e che tanta angoscia stava dando al ragazzo, svanisse nel nulla, nell’affrontare la prova dell’amore di Annabel, e nell’accompagnarla fino all’incontro con la grande consolatrice.
Da quando sono diventato buddista, peraltro, ho, anche io, meno paura di morire.
Dopo questo film, non dimenticherete mai né uno xilofono giocattolo, ma, soprattutto, l’idea del senso della vita, che, sul finire del film, ci viene data dall’esistente più surreale dell’opera.
Il fantasma del kamikaze Hiroshi che dice:
“.…(omissis) … La vita dura così poco. La cosa importante è riuscire a dire quello che abbiamo da dire alle persone che amiamo“.
Eh si, il significato della vita, e della morte, forse, è davvero tutto lì. Anche se non siamo più, ahimè, degli adolescenti.
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7. Curiosità
Oltre ad Henry, il figlio del grande Dennnis Hopper, nel film recitano anche l’esordiente Schuyler Fisk, figlia dell’attrice Sissy Spacek (Premio Oscar per “La ragazza di Nashville” e protagonista di “Carrie – lo sguardo di Satana“).
Il ruolo di protagonista femminile è andato alla giovanissima attrice Mia Wasikowska, grazie alla sua interpretazione in “Alice in Wonderland” – di Tim Burton. L’attrice è in sala anche, come ho già avuto modo di scrivere, con “Jane Eyre“.
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8. Critiche al film
Il film è stato oggetto di quattro principali ontologie di critiche, e precisamente.
Manifesto della cultura e/o sotto-cultura Hipster
L’opera sarebbe ritenuta una sorta di omaggio alla cultura Hipster, della quale, effettivamente, incarna qualche stereotipo.
Lontano dagli adolescenti che narra
Altre critiche muovono, invece, dalla presunta lontananza, di questo regista, dagli effettivi problemi degli adolescenti.
Eccessivamente melodrammatico
Altri, ancora, considerano l’opera un mainstream eccessivamente melodrammatico, e classico. (Lui che incontra Lei, Loro che si riconoscono come creature speciali, Loro che si amano, lei che deve morire. Vi ricorda qualcosa?)
Flop al botteghino
Una quarta teoria di critiche sostiene, infine, che questo film non varrebbe un granché, perché non starebbe ripagando gli investimenti dei produttori.
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Personalmente sostengo quattro cose.
Nel cinema è stato raccontato, più o meno, tutto, e molti di questi critici, anche e soprattutto statunitensi, ma anche blogger, sono, più o meno, gli stessi che hanno esaltato Avatar di James Cameron, che di originale non aveva una ceppa.
Io non sono un esperto di Cultura Hipster (per ovvi, ed evidenti motivi), ma ritengo che tutto sia degno di essere rappresentato, al Cinema. Lo specifico problema del Cinema, infatti, non è mai, o quasi mai, di cosa narri la storia (con eccezione per il cinema dei Vanzina, scherzo, ovviamente), ma, secondo il mio modesto parere, di come questa storia sia resa nell’intreccio narrativo, e nel racconto filmico.
Altra contro-obiezione. Nessun film sugli adolescenti può essere, ahimè, scritto dai medesimi. Detto questo, chi decide chi, sia, effettivamente, vicino a loro? E sulla base di quali parametri, considerando che la sceneggiatura, peraltro, non è stata scritta da Gus Van Sant, ma da Jason Lew?
La quarta, e forse più importante considerazione, è che molte opere, che considero irrinunciabili, nella storia del Cinema, non hanno ripagato i produttori, e chi sostiene che dovrebbe essere solo il mercato a decretare la sopravvivenza del Cinema, in questo millennio, è da guardare con sospetto, in quanto sta, di fatto, favorendo la scomparsa di autori come Gus Van Sant, che andrebbero, invece, tutelati, proprio perché nati come una sorta di anticorpo del materialismo dell’immagine, come mi piace, ma neanche più di tanto, sia chiaro, definire Hollywood.
Passo e chiudo.
Alla prossima.
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