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Ex Post – Episodio #1 – Monicelli vs Moretti: chi aveva davvero ragione?

Ex Post - la nuova rubirica di retrospettiva di Cinemavistodame.com

EX POST

RIVEDERE IL PASSATO.

CAPIRE IL PRESENTE.

SMASCHERARE LE PROFEZIE.

Una rubrica ideata e scritta da Roberto Bernabò

Episodio 1 – Monicelli vs Moretti: chi aveva davvero ragione?
a cura di Roberto Bernabò

Alcune interviste, viste a distanza, assomigliano a delle istantanee morali più che a confronti tra opinioni. Quella televisiva che vide come protagonisti i registi: Mario Monicelli e Nanni Moretti, con la regia colta e provocatoria di Alberto Arbasino, è una di queste.

Copertina della trasmissione televisiva RAI "Match - domande incrociaate" in cui andò in onda lo storico scontro tra Mario Monicelli e Nanni Moretti

Andata in onda nei primi anni ottanta, racconta un’Italia a cavallo tra due stagioni: la fine del cinema industriale e l’inizio del cinema identitario.

Moretti, allora giovane autore autarchico e radicale, e Monicelli, regista veterano e maestro, non si scontrarono solo per divergenze di gusto o generazione, ma oserei dire per qualcosa di più profondo: la visione del ruolo del cinema nella società.

La commedia all’italiana: stile o identità?


Monicelli, in tono apparentemente conciliante, afferma a Moretti:

“Il tuo film è una commedia italiana. Sì, con i modi tuoi… ma è una commedia italiana.”

A suo modo è un riconoscimento. Ma anche un posizionamento, quasi una normalizzazione dell’anomalia-Moretti all’interno del sistema cinematografico nazionale. Allora mi suonò provocatoria, quansi a voler simunire l’originalità innovativa del giovane autore emergente.

Oggi, invece, assume piuttosto il peso specifico di una vera e propria rivelazione profetica.

All’epoca, Moretti rifiutava le etichette, e soprattutto quella. Ma Monicelli ci vide lungo: i film di Moretti – seppure ermetici, nevrotici, autarchici – appartengono al filone della commedia all’italiana, per come questa ha saputo ridere dell’ego, del fallimento, della piccolezza umana.

“Io sono un autarchico” è sì girato in super8, con un budget di soli 3 milioni di lire, ma ha una struttura comica, un ritmo di gag verbali e comportamentali, una costruzione narrativa basata sull’inadeguatezza del protagonista – proprio come certi personaggi di Sordi, Manfredi o Tognazzi, per quanto la cosa possa apparire addirittura come paradossale.

Moretti ha semplicemente tolto il pubblico popolare, i dialetti, la provincia. E ha lasciato il borghese urbano che parla a sé stesso.

Ma la radice è quella: la commedia dell’italiano medio che si crede superiore.

Moretti l’autore che non voleva gli attori famosi

Nanni Moretti

All’epoca Moretti rivendica con fierezza il non-uso di attori noti:

Che bisogno avete di usare attori famosi nei vostri film?

Una dichiarazione “identitaria”, tipica del post-’78, quando il cinema doveva essere contro, piccolo, opposto all’apparato industriale.

Ma Ex Post, sappiamo com’è andata:

Locandina del film "La stanza del figlio" di Nanni Moretti"

  • Silvio Orlando diventa suo attore-feticcio;
  • Margherita Buy una presenza costante;
  • in Habemus Papam, oltre a Michel Piccoli nel ruolo del Papa recalcitrante;
  • spunta addirittura John Turturro, attore hollywoodiano da Oscar e lo stesso Moretti diventa il volto di un certo cinema italiano d’autore: istituzionalizzato, riconosciuto, premiato additrittura con uno dei premi più prestigiosi del cinema europeo: la palma d’oro a Cannes, per il film “La stanza del figlio“.

John Turturro nel film "Habemuns Papam" di Nanni Moretti

Il punto non è l’incoerenza. Il punto è l’evoluzione.

Come ogni autore maturo, Moretti ha capito che l’attore è un ponte, non un ostacolo. E che certi volti – familiari, carismatici, capaci – sono strumenti narrativi potenti, e non semplici concessioni al mercato. Senza considerare che nessuno farebbe più l’attore se il diventare famosi (perchè bravi) fosse visto addirittura come un handicap.

L’America è morta davvero (o è addirittura risorta?)

Mario Moonicelli

Uno dei momenti più clamorosi dell’intervista è quando Monicelli dichiara:

Secondo me il cinema americano è finito. È un morto che cammina.

La frase oggi suona come una previsione fallita, al limite del grottesco.

Negli anni successivi alla sua dichiarazione, Hollywood ha vissuto alcune delle sue stagioni più floride:

  • la rinascita del cinema indipendente negli anni ’90 (con Tarantino, i Coen, Soderbergh);
  • la rivoluzione digitale dei 2000;
  • il dominio planetario dei blockbuster Marvel, Pixar, Nolan e compagnia;
  • il passaggio alle piattaforme (Netflix, Amazon Studios);
  • e infine l’ibridazione con la serialità.

Qui Monicelli sembra cedere alla tentazione più nobile dell’intellettuale europeo: profetizzare la fine dell’Impero.

Ma l’America – almeno quella del cinema – non solo non è morta: ha cambiato pelle.

  • Hollywood ha digerito la crisi degli studios;
  • ha inglobato il cinema indipendente (Miramax, Focus Features…);
  • ha inventato le saghe, il Marvel Cinematic Universe, il fenomeno delle serie;
  • e oggi è il cuore pulsante delle piattaforme che dominano il consumo globale (Netflix, Amazon, Apple).

La morte evocata da Monicelli era quella dell’immaginario classico.

Billy Wilder

Ma non aveva né previsto né immaginato che sarebbe rinato sotto forma di franchising e algoritmi. Se Monicelli aveva colto il declino del modello classico, non aveva però previsto la sua capacità mutagena.

Il cinema americano è diventato altro – non è morto, si è trasformato. Ed è ancora, a conti fatti, la principale industria audiovisiva del pianeta.

Le donne, infine secondo Monicelli

Mario Moonicelli

Nell’intervista, Monicelli dice:

Io ho sempre visto la donna in un certo modo, un po’ distante, misteriosa…

Una frase da altro secolo. Ma anche qui, Monicelli smentisce sé stesso.

Locandina del film di Mario Monicelli "Speriamo che sia femmina"

Pochi anni dopo, gira Speriamo che sia femmina (1986): uno dei primi film italiani esplicitamente femministi.

Un’opera in cui la famiglia patriarcale si sbriciola, e a reggere tutto sono le donne: decisive, intelligenti, tenaci. Con Stefania Sandrelli, Liv Ullmann, Catherine Deneuve.

Una sorta di confessione in forma di fiction: la società stava già cambiando, e il regista si mette in ascolto.

Un vero capovolgimento dello sguardo.

Altro che distanti: nel film, le donne parlano, decidono, agiscono, resistono.

E i personaggi maschili appaiono, al contrario, fragili, isterici, spesso patetici.

Anche questo, Ex Post, dimostra che le parole del presente non sempre anticipano le scelte del futuro.

Lo scontro generazionale: incomprensione o smascheramento?

La vera frattura dell’intervista non è tra due posizioni. È tra due epoche che si ignoravano. E che forse addirittura si snobbavano.

Monicelli ironizzando sul fatto che Moretti avesse appreso – adattandola al suo mondo ed al suo contesto giovanile – gli stilemi della commedia all’italiana.

Moretti criticando le scelte di casting e di temi affrontati nel cinema italiano e nel film “Il borghese piccolo piccolo” di Mario Monicelli, in particolare, nelle sale nei giorni dell’intervista.

Monicelli difende un cinema fatto per il pubblico, solido, strutturato.
Moretti un cinema fatto per sé stesso, dove lo spettatore è chiamato a inseguire, non ad accomodarsi.

Oggi, questa opposizione si è nel tempo dissolta:

  • gli autori fanno marketing su Instagram;
  • i cinepanettoni tentano l’autorialità;
  • i festival premiano storie iper-personali, ma confezionate con tagli seriali.

Il cinema è diventato liquido. E la rigidità di quei ruoli artigiano vs autore non ha più senso.

In conclusione: Ex Post che cosa ci resta?

Quella puntata è come una capsula del tempo. Più che un duello, è un test di autenticità.

Chi è rimasto fedele a ciò che diceva?
Chi ha avuto il coraggio di cambiare?

Monicelli, pur radicale, ha saputo ascoltare.
Moretti, pur dissidente, è diventato establishment.

Entrambi, a modo loro, furono sinceri.
Ma la storia – come sempre – si prende gioco di tutti.
E noi, ex post, non possiamo far altro che tornare indietro per capire meglio dove stiamo andando.

A rivederla oggi, quella puntata è una miniera. Più che un dibattito fu uno specchio dell’autonarrazione degli artisti.
Ognuno si raccontò come forse, quasi inconsciamente, desiderava essere visto:

Monicelli come un radicale corrosivo;

Moretti come un eretico innovativo e solitario.

E quindi, chi aveva ragione?

Forse nessuno dei due.

O forse entrambi, ma solo in quel determinato momento storico.

Perché, come insegna questa rubrica, Ex Post il tempo non è mai un tribunale, ma, piuttosto uno strumento di comprensione e una cartina tornasole (anche se non ho mai capito cos’é), per leggere l’evoluzione della storia.

Rivedere il passato non per giudicarlo, ma per capire meglio quello che oggi siamo diventati.

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