cinemavistodame.com di Roberto Bernabò

E ora dove andiamo? | di Nadine Labaki

2011 | Francia / Libano / Egitto / Italia

analisi di eventi, esistenti e linguaggio audiovisivo

Gli opposti s’invertono, ma non si toccano – un’opera coraggiosa contro i fondamentalismi, ed a favore del dialogo tra le religioni – a cura di Roberto Bernabò

E ora dove andiamo?

titolo originale: Et maintenant, on va où?
nazione: Francia / Libano / Egitto / Italia
anno: 2011
regia: Nadine Labaki
genere: Commedia
durata: 100 min.
distribuzione: Eagle Pictures
cast: C. Moussawbaa (Takla) • L. Hakim (Afaf) • N. Labaki (Amale) • Y. Maalouf (Yvonne) • A. Noufaily (Saydeh) • J. Farhat (Rabih) • M. Aqil (Abou Ahmad)
sceneggiatura: R. Al Haddid • T. Bidegain • J. Hojeily • N. Labaki • S. Mounier
musiche: K. Mouzannar
fotografia: C. Offenstein
montaggio: V. Lange

Sinossi: In un piccolo villaggio libanese isolato, una comunità vive in pace e buon umore, senza tensioni apparenti, nonostante la divisione religiosa che ritma della vita del villaggio. Tra musulmani e cattolici, l’accordo è cordiale fino a che, la televisione non fa irruzione nel villaggio. Gli uomini imparano la violenza interreligiosa nel Paese. Pertanto, i rapporti s’inaspriscono ed il conflitto sta per esplodere, quando le donne decidono di salvare la pace del villaggio.

Alcune sequenze del film “E ora dove andiamo?” sono state girate di fronte a milizie divertite e spaventate vicino a Hezbollah nella Bekaa, che si trova tra Beirut e Damasco.

Altre sono state realizzate nelle cristiane montagne a nord della capitale del Libano.

Completato nell’autunno 2010, “E ora dove andiamo?“, presentato all’ultimo Festival di Cannes nella sezione “Un Certain Regard“, mi è apparso come un film rondine, che annuncia la primavera araba.

Il secondo lungometraggio di Nadine Labaki (dopo Caramel, presentato nel 2007 alla Quinzaine des réalisateurs), non ci parla solo di una libertà dai dogmi, sia di quelli religiosi e sia quelli di una società che comprime il femmineo, ma ci parla anche, e probabilmente assai di più, di una conosiderevole capacità di espressione.

Quella di questa coraggiosa regista libanese, che ci aveva già favorevolmente colpito per la sua opera prima, Caramel.

Il Libano, così rappresentato, con tutte le sue luci, e le sue ombre, ci appare al dunque, dobbiamo proprio riconoscerlo, come una luce di speranza, nella costellazione dei paesi arabi, se capace di generare talenti che riescono ad esprimere con tanta creatività, ironia, pathos, e comicità, la possibile via per una vera primavera araba.

Forse più ipotetica che reale, ok, ma pur sempre già nelle corde dell’espressione artistica cinematografica delle latitudini libanesi di questa giovanissima regista.

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Circa gli eventi ed esistenti del film

Le pellicola inizia con una sequenza impressionante che mostra donne vestite di nero, nella polvere di una pianura quasi desertica.

Ballano, in un metaforico pellegrinaggio verso il cimitero. Qui il gruppo, in apparenza omogeneo, la massa nera delle vedove e degli orfani, si divide: alcuni vanno verso la croce, gli altri in una direzione opposta.

E’ probabilmente questo il nucleo del film di Nadine Labaki, nel quale la regista ha inteso misurare, controbilanciandole, la fede e la morte.

In questa regione, le persone continuano a morire (volontariamente o no), per il nome del Dio viene richiamato.

Anche nella nostra vecchia Europa, a volte, il desiderio di religione, mi accorgo, diventa come logorato, al termine, ad esempio, della fine di un matrimonio, e mi è parso di scorgere, in molte situazioni che vivo, ed alle quali assisto nel mio quotidiano, come una sorta di analogia tra il conflitto intestino delle due religioni che convivono nel Libano, quella di matrice islamica e quella di matrice cristiana, con quello che accade, un po’ in tutta l’Europa, ed in tutto il mondo, arrivo a dire, con l’accentuarsi dei flussi migratori.

La giovane regista libanese – non dando affatto per scontato il costante pericolo che incombe sulla comunità, e che mina il fondamento della società in cui vive – ha voluto ribellarsi allo stato delle cose, ed ha inventato, per lanciare la sua ironica, romantica, ma non per questo meno dura, protesta, un remoto villaggio. Dopo la fine della guerra (nessun paese o conflitti sono nominati).

Per rifornirsi di carburante, è necessario superare i campi minati, cristiani e musulmani condividono la stessa carenza, frequentano gli stessi negozi, lo stesso caffè, lo stesso dolore ereditati dalla guerra.

Solo che le conseguenze non sono le stesse per uomini e per le donne.

Mentre i primi, infatti, sono sempre pronti a riaprire vecchie ferite, le madri e le mogli, invece, hanno una sola preoccupazione: fermare la sofferenza.

Quando una serie di incidenti, più o meno accidentali, minacciano di riaccendere il conflitto, saranno le donne del villaggio a contrastare le violenze dei loro uomini, pronti a dissotterrare le armi nascoste dopo l’ultimo episodio della guerra civile.

Di fronte a questa costante minaccia, Nadine Labaki, mette in campo il suo possente arsenale cinematografico: il musical, con alcuni numeri vocali, il dramma, e la commedia pura.

Attrice professionista, oltre che regista del film, lei (che nel film ricopre il ruolo di direttrice del caffè del paesino), ha passato mesi a cercare attori non professionisti, per riuscire ad incarnare, al meglio, il pragmatico pacifista (ma per nulla banale), messaggio verso l’alto del film. No al fondamentalismo. Si al dialogo interreligioso, se i fondamentalismi portano all’eliminazione della vita.

Unici esistenti maschili positivi del film sono l’Imam islamico, ed il parroco della chiesa cattolica del paesino, anche loro impegnati ad attenuare il conflitto. Divertente la battuta del prete cattolico: “Qui abbiamo risolto … non so in cielo“.

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Le cose che mi hanno colpito

Ci sono cose di pregio in questo film.

Una su tutte, l’ironia con cui la religione diventa agente alchemico dell’azione sia degli uomini, più fondamentalisti, e quindi sempre pronti al conflitto, sia di quella delle donne, più compassionevoli ad amorose, e, quindi, sempre alla ricerca dello stratagemma più giusto, impensato, ed impensabile, per invalidare i disegni di violenza dei mariti e dei figli.

Persino la Vergine interviene, per suggerire la mossa forse più divertente del film, facendo illuminare i seni della donna stilizzata su di un vecchio flipper, proprio quando le donne, disperate e preoccupate, invocano l’ispirazione per la prossima mossa contro la lotta fratricida dei loro mariti e dei loro figli.

Questa capacità di raccontare una fede agita attraverso la leggerezza, e la femminilità, in tutte le accezioni del termine, rendono quest’opera unica nel suo genere.

In grado di fondere, in un unicum, fede mai bigotta, fondamentalismo, provocazione, divertimento, e liberazione dai dogmi.

Il tutto senza mai esacerbare né il conflitto, né la superficialità nell’affrontare un tema, invece, alquanto complesso, e non solo nel Libano.

Che il futuro della pace sia donna, a questo punto, appare molto evidente, oltre che, arrivo a dire, assai piacevole da vivere.

Evviva Nadine, allora, ed evviva la lotta ai fondamentalismi religiosi, che conducono all’odio e non all’amore, verso ciò che è diverso da noi.

Di pregio, e chiudo, anche la struttura circolare del film, che si chiude completando la sequenza iniziale del cimitero, dando spessore e significato al dubbio evocato nel titolo dell’opera.

Le religioni devono servire per unire, non per dividere, questo tema lo avverto come imprescindibile ancora di più oggi, dopo la mia conversione al buddismo di Nichiren Daishonin.

Trascrivo dalla guida “giorno per giorno” di Daisaku Ikeda il pensiero del 18 febbraio:

“La disputa religiosa deve essere evitata a tutti i costi; essa non dovrebbe essere permessa in nessuna circostanza. Le persone possono avere un credo religioso diverso, ma ciò che è fondamentale è che siamo tutti esseri umani. Noi tutti cerchiamo la felicità e desideriamo la pace. La religione non dovrebbe separare le persone. Dovrebbe unire il potenziale presente nei cuori degli individui, a beneficio della società e creare un futuro migliore.”

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Breve intervista a Nadine Labaki, regista del film

cinemvistodame.com: E’ stato il voler raccontare la storia di un remoto villaggio in Libano, dove cristiani e musulmani vivono insieme, che l’ha spinta a realizzare questo film?
Nadine Labaki: I miei film sono sempre ispirati da qualcosa di personale. Al tempo delle riprese ero in attesa del mio primo figlio ed è stato un periodo piuttosto tranquillo in Libano, e poi c’è stata un’altra guerra per strada per diversi giorni. Ho visto i vicini diventare, improvvisamente, nemici ed ho avuto paura. Ho pensato: “Se mio figlio fosse lì, come portrei fare per fermare tutto questo, ed impedirgli di prendere, anche lui, una pistola?” Da qui parte la storia di un villaggio e delle sue donne che, di fronte alle assurdità, fanno di tutto per rimuovere gli uomini dalle intenzioni di una guerra. In Libano ci sono molti villaggi come quello del film, dove la chiesa e la moschea sono di fianco a fianco, ci siamo rivolti a Taybeh particolare, uno dei villaggi “misti”, situato a circa 90 chilometri da Beirut.

CVDM: Piuttosto che un film sul Libano, è fare un film sulle donne che stanno lottando per impedire ai loro uomini di uccidersi a vicenda. Possiamo dire che questo film è il lavoro di una femminista?
NL: Certamente non avrei scritto lo stesso film, se il mio istinto materno non si fosse come ri-svegliato. Certo, anche se per “Caramel“, nel 2007, ho chiesto ad altre donne di narrarmi i loro problemi, ma non sono, davvero, una femminista. Scrivo di donne perché è naturale per me, e ritengo che sia mia responsabilità, in questa società, offrire un modo per cambiare le cose. E’ importante risvegliare l’idea che le donne, con il loro modo di pensare, possano davvero incidere sul cambiamento della loro condizione di vita. Se questo significa essere femminista, allora ok, forse si, sono femminista.

CVDM: Contro ogni previsione, il film è estremamente divertente e raffinato. Come si fa a imporre la risata, in un soggetto simile?
NL: Penso che viene naturale, anche. Abbiamo imparato, molto velocemente, a ridere delle nostre disgrazie, è parte della personalità del Libano, non avevamo scelta. Io non conosco nessuno, intorno a me, che non ha vissuto una tragedia, e perso i suoi cari in guerra. L’istinto di sopravvivenza ci porta alla deviazione, per ridere di noi stessi. Io tocco i due registri, il tragico e il comico, per esprimere l’emozione di questi estremi. So che alcuni restano turbati da questo, nel mio film, ma è una sfida che tento di fare ad ogni film. E’ il mio modo di raccontare cose non sempre né facili, né solo divertenti, o solo tragiche.

CVDM: I suoi attori sono per lo più dilettanti, come ha fatto per selezionarli e dirigerli?
NL: Questo è il risultato di un lungo ed intenso lavoro. Ho incontrato personalmente molte persone, mi sono messa in gioco, sono scesa in strada per incontrare le loro famiglie, filmando le persone e cercando delle conferme per quello che volevo narrare. Nella fase di sceneggiatura, il personaggio prende forma nella mia testa, è un personaggio, da un certo momento in poi il personaggio diventa individuo, e, da quel momento, personaggio ed individuo, di solito, vanno di pari passo. Poi mi capita di incontrare chi interpreterà i miei personaggi, discutiamo, e se funziona cerco di convincerli ad accettare di giocare … ciò che mi interessa è la loro personalità nella vita, perché la cosa più difficile è mantenere la spontaneità sul set, non amo nei miei film, l’eccesso di strutturazione. A volte, sul set, accade, con questo metodo, che si vivano momenti preziosi, io sono totalmente immersa e parte di essi, anche gli attori, a quel punto, sentono e credono che quello che stiamo facendo non è più solo un gioco, e questo aiuta anche me a credere in quello che che faccio.

CVDM: Nel film interpreti il ​​ruolo di Amal, una donna indipendente e sicura, proprio come Layale, direttore del salone che si gioca in “Caramel”. Come hai fatto a definire questo ruolo?
NL: In effetti è forse una delle mie debolezze, ma allo stesso modo io chiedo a tutti i miei giocatori, (attori n.d.r.), professionisti e dilettanti, per essere più vicini alla loro personalità, di rimanere, almeno qualcuno, molto vicino a me. Perché sia Amal che Layale sono simili e simili a me: io sono una leader, una volontaria, che sa unire le persone e dirigerle nell’azione.

CVDM: Nel tuo film ci sono molte parentesi cantate. Da dove trai le canzoni che innesti nelle tue opere, e come fai ad inserirle nel contesto del film?
NL: Volevo toccare questo tipo di cinema, mi piace la danza e musical, ed è un buon modo per esprimere la sofferenza di queste donne. La scena iniziale mostra loro come un esercito che opera nel dolore stesso, e questo episodio, la sua coreografia, mi permette di narrare la mia storia come un “racconto”. Inoltre, il film inizia con la frase “Questa storia dirò a chi vuole ascoltare …
Mio marito, Khaled Mouzanar, ha composto la musica, ed è un amico, Tania Saleh, che ha scritto i testi delle canzoni.

CVDM: La primavera araba potrebbe ispirare uno dei tuoi film in uscita?
NL: Certamente è molto stimolante, e mi piacciono i miei film in sintonia con temi di attualità. Attualmente il Libano non è il primo paese, noi siamo, invece, tenuti da parte della Corte penale internazionale, che giudicherà gli assassini dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Ma questa speranza di cambiamento ci riguarda, e le cose artistiche che accadono sono incoraggianti. Aspetto il mio prossimo film, sento il bisogno di girare, ma aspetto che l’idea mi venga in maniera spontanea. Solo così riesco a fare funzionare le cose, sul set.

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