Cinemavistodame.com di Roberto Bernabò

Cinque vittorie del Sì. Cinque referendum dichiarati non validi.

Quando l’astensione diventa strategia di governo, il referendum smette di essere uno strumento di democrazia

Referendum 8 e 9 giugno 2025

Referendum 8 e 9 giugno 2025 sui diritti dei lavoratori e sulla cittadinanaza italiana - Quesito 1Referendum 8 e 9 giugno 2025 sui diritti dei lavoratori e sulla cittadinanaza italiana - Quesito 2Referendum 8 e 9 giugno 2025 sui diritti dei lavoratori e sulla cittadinanaza italiana - Quesito 3Referendum 8 e 9 giugno 2025 sui diritti dei lavoratori e sulla cittadinanaza italiana - Quesito 4Referendum 8 e 9 giugno 2025 sui diritti dei lavoratori e sulla cittadinanaza italiana - Quesito 5

Il governo voleva che i referendum fallissero.

E c’è riuscito.

Non ha fatto nulla per favorire il dibattito pubblico, anzi: ha fatto di tutto per silenziare i temi sul tavolo. Nessuna campagna informativa, pochissimo spazio sui media generalisti, un atteggiamento freddo, se non ostile, da parte della politica istituzionale. In particolare da chi oggi detiene il potere.

È stata un’occasione persa.
Si poteva aprire una discussione vera su lavoro, diritti, cittadinanza.
Invece si è scelto di disertare il confronto.

Colpevolmente.

I media pubblici, in particolare la RAI, hanno mancato al loro dovere costituzionale di garantire un’informazione completa e imparziale.

Nessuno speciale in prima serata, nessun approfondimento serio.

Solo qualche trafiletto, relegato in spazi marginali.

Un blackout informativo che suona più come una precisa strategia che come una coincidenza.

Eppure, i dati ci dicono qualcosa di diverso da quanto si vuol far credere.

L’affluenza si è fermata attorno al 30%, è vero.

Ma è davvero così bassa se paragonata al 63,9% delle ultime elezioni politiche del 2022, che però si tennero in piena crisi politica e con un’enfasi mediatica massima?

Siamo sicuri che l’affluenza al voto, con una campagna informativa seria, non avrebbe potuto superare la soglia del 50% richiesta dal quorum?

Una riforma necessaria?

Forse è arrivato il momento di riformare la legge sui referendum.

Il quorum così com’è oggi rappresenta più un ostacolo che una garanzia democratica.

Molti giuristi e costituzionalisti da tempo chiedono l’abolizione del quorum (come accade, ad esempio, in Svizzera), o almeno una sua riduzione, per esempio al 40% o legata al solo corpo elettorale attivo (cioè chi ha effettivamente votato alle ultime elezioni).

Tra i sostenitori dell’abolizione o revisione del quorum si trovano figure come Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Ugo Mattei, e numerose proposte sono state presentate anche in Parlamento, pur restando sempre lettera morta.

Perché continuare a consentire che una non-partecipazione valga più di una partecipazione attiva?

Oggi il dato che conta è uno solo: milioni di persone hanno votato SÌ, in percentuali bulgare, su tutti i quesiti.

Erano cittadini informati, motivati, consapevoli.

E lo Stato ha voltato loro le spalle.

Oltre il referendum: gli strumenti di democrazia diretta e le obiezioni che non reggono

Certo, c’è chi obietterà:

Il referendum va bene per le questioni di coscienza o per i diritti civili. Ma le leggi lasciamole al Parlamento eletto.

Un’obiezione che può apparire ragionevole, almeno in linea teorica.

Il Parlamento, infatti, è per definizione costituzionale il luogo della produzione legislativa.

Ma allora viene da chiedersi: che succede quando quel Parlamento si dimostra incapace, inefficiente o, peggio, indifferente?

Negli ultimi anni — sotto governi di ogni colore — la qualità della produzione legislativa è spesso stata deludente, se non disastrosa.

Abbiamo assistito a:

  • leggi dichiarate incostituzionali perché scritte male o in contrasto con i principi fondamentali della Carta;

  • norme approvate ma prive di copertura finanziaria e quindi mai applicate;

  • leggi-vetrina annunciate con enfasi e poi svuotate nei decreti attuativi o abbandonate prima ancora di entrare in vigore;

  • riforme parziali e ambigue, che generano più problemi di quanti ne risolvano.

E cosa dire delle proposte di legge di iniziativa popolare, altro strumento prezioso di democrazia diretta?

Ogni anno migliaia di cittadini si mobilitano, raccolgono firme, portano in Parlamento testi articolati, spesso redatti con il contributo di giuristi ed esperti. Proposte che, in molti casi, risultano scritte meglio di tanti disegni di legge parlamentari.

Eppure, queste iniziative finiscono quasi sempre ignorate: non vengono discusse, non vengono calendarizzate, non ricevono risposta. Rimangono sepolte nei cassetti delle commissioni, come se la voce di centinaia di migliaia di cittadini valesse meno di un tweet di un capogruppo.

Nel frattempo, il Parlamento si affida sempre più frequentemente al Decreto-Legge, uno strumento pensato per casi di effettiva urgenza, ma ormai usato sistematicamente per evitare il confronto parlamentare e comprimere la discussione democratica.

In questo contesto, continuare a dire che “le leggi spettano al Parlamento” suona più come una difesa d’ufficio che come una valutazione realistica.

Il referendum, al contrario, può e deve servire anche a questo: a rimettere al centro il confronto democratico quando la politica rappresentativa lo evita o lo teme.

Non è un attacco alla democrazia parlamentare, ma un suo completamento.

Un promemoria necessario: che la sovranità, in ultima istanza, appartiene al popolo.

Chiudo con un momorandum triste ma necessario.

Quando i cittadini parlano, e lo Stato finge di non sentire, la democrazia si ammala.

E un giorno – forse non lontano – dovremo chiederci tutti se è ancora davvero tale.

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